Editoriali
Se anche al vescovo piace Pasolini
Scherza con i fanti ma lascia stare i santi. Mi sembra il giusto esordio per rendere bene lo stato d’animo con il quale affronto la scrittura di un pezzo che non avrei mai pensato, ma che mi fa davvero piacere scrivere, affrontando alcuni dei temi che più di tutti hanno appassionato i miei studi accademici.
Sabato 2 aprile sul Nuovo Quotidiano di Puglia ho avuto il piacere di leggere un interessantissima e appassionata riflessione del Vescovo Angiuli sul rispetto della vita, partendo da un’excursus sulla figura artistica e umana di Pasolini, estrapolandone un aspetto specifico della sua sterminata produzione letteraria, piegandolo all’esigenza di fondo della dimostrazione aprioristica di una tesi. Come è tutto vero ciò che Vito Angiuli ha sapientemente citato è anche vero che Pasolini, per la Chiesa e per ogni tipo di organizzazione secolarizzata, era soprattutto una spina nel fianco.
In questo solco si inserisce anche il rapporto teso che da sempre il PC italiano, e la sua base, hanno avuto nei confronti del poeta e dei suoi ragazzi di vita.
Ma non è questa la sola forzatura di un saggio che poggia su tesi che risultano essere forzatamente di parte. Soprattutto il passaggio:
“era anche convinto che il nuovo potere si alimentava con il contributo dei media, della televisione, dei giornali, della pubblicità, dei social che bombardando in maniera trasversale il loro target libertario, producevano un impoverimento e un imborghesimento dell’intera cultura italiana”.
un passaggio dell’articolo del Vescovo
In questo caso più che di fronte ad una forzatura ci troviamo di fronte ad un falso storico, in quanto Pasolini non avrebbe mai potuto immaginare l’avvento dei social, essendo morto in mondo totalmente analogico. Ma non è solo questo l’aspetto sul quale vorrei soffermarmi, perché se è vero, come è vero, che Pasolini fu uno dei maggiori accusatori del sistema mainstream in Italia, è anche vero che le sue erano tesi riprese da due dei più famosi esponenti della scuola di Francoforte, Horkheimer e Adorno che in “Dialettica dell’illuminismo” del 1947 scrivono “Una critica sull’industria culturale”, uno dei testi base studiato in tutte le facoltà di comunicazione e sociologia del mondo.
Edgar Morin con il suo “L’esprit du temps“, è arrivato a sostenere che l’industria culturale non fosse solo uno strumento ideologico utilizzato per manipolare le coscienze, ma anche un’enorme officina di elaborazioni dei desideri collettivi. Questo perché essa utilizza degli archetipi, cioè strutture organizzate che permettono all’individuo di ordinare i propri sogni. Quindi alla massa vengono riconosciuti i propri sogni. Secondo lo studioso Noam Chomsky, le culture totalitarie del ‘900 utilizzavano prodotti standardizzati dell’industria culturale per dominare gli individui. Infine, Walter Benjamin: il suo scritto “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica” si basa sul concetto che il prodotto artistico, rispetto al passato, ha perso la sua “aura”, ovvero la sua “sacralità”. Con l’avvento della tecnologia, le opere diventano “riproducili”.
Tutte Tesi che trovano fondamento in una sorta di spocchia nei confronti delle nuove arti visive che da sempre ha attraversato i movimenti artistici occidentali e che ha pesantemente caratterizzato la produzione letteraria della fine del 19° secolo. Il peccato originale fu la foto, per qualcuno addirittura prova dell’esistenza del diavolo, per altri semplicemente il mezzo che avrebbe mandato per strada centinaia di ritrattisti, uno dei lavori meglio pagati di allora.
Ed è in questo contesto ed in questa visione che si devono inserire le parole di Pasolini, che prima di essere un giornalista e un prolifico cineasta, era e rimarrà per sempre artista e fine poeta.
Chiaramente le parti del pensiero pasoliniano su tutto ciò che concerne la sua visione spirituale si prestano a citazioni da parte di tutti coloro che vogliono usarle per dimostrare tesi portate avanti in Italia, fortunatamente, da una parte minoritaria della nostra società, rappresentata perlopiù dal Popolo della Famiglia e dai deputati Pillon e Adinolfi, non nuovi a citazioni “colte” al limite del revisionismo storico. Il tema dell’aborto è per questo uno di quelli che dimostrano l’enorme differenza di fondo che non potrà mai far conciliare la figura di Pasolini con quella della chiesa: la Libertà.
L’uomo libero, anarchico e pienamente consapevole del proprio io, rappresenta per questo al tempo stesso il fine verso il quale ogni uomo colto e consapevole dovrebbe tendere, con la consapevolezza di stare affrontando un’utopia resa tale dalla presenza delle religioni, che nella libertà vedono il loro nemico maggiore, identificata con i mille nomi che hanno dato nel tempo alle figure demoniache. Un concetto espresso pienamente dal mito di Adamo ed Eva, insegnato ai bambini fin dalle elementari.
Ed è chiaro come la Chiesa, l’istituzione terrena più longeva della storia dell’umanità, tenga ai suoi miti e voglia valorizzarli come veri. Meno giusto mi sembra, nel 2022 e con un dialogo aperto sulla guerra, volerli imporre a chi reputa la laicità degli stati democratici una delle conquiste più significative del secolo scorso. E tornare a parlare di Aborto a 41 anni dal referendum che ne sancì la legalità, mi sembra sinceramente una forzatura oltre che un inutile ingerenza, sarebbe forse meglio concentrarsi su temi più affini ai nostri tempi.
Mi permetto, con la modestia che è propria del plebeo che si rivolge ad un porporato, di suggerirne alcuni: il rapporto tra potere temporale e spirituale che mai come oggi torna prepotentemente ad essere tema centrale del dibattito politico, la costante dipendenza economica della chiesa cattolica italiana dallo stato, lo spopolamento dei luoghi di culto dovuto ad una dottrina superata e che da molti viene vista come portatrice di antichi pregiudizi e prevaricazioni. Temi che sta affrontando Papa Bergoglio, ma che purtroppo non vedo affrontare, nel nostro piccolo, nella nostra comunità, che tanti problemi si porta dietro fin dai tempi del latifondo, quei problemi che spesso sono stati affrontati da Pasolini nello spietato affresco dell’Italia del dopoguerra, un tempo di cui il Vescovo sembra avere nostalgia.