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Ambiente e Territorio

La distruzione di ciò che siamo: il disastro Xylella Fastidiosa

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Percorrendo per lavoro le strade del Salento, mi viene facile cogliere le differenze tra il presente ed il passato. Facile se non addirittura banale. Come direbbe Edgar Morin, occorre però guardare nel profondo, perché attraverso lo sguardo profondo è possibile cogliere la profondità. Ecco perché tutto diventa più complesso. Domina nei nostri occhi un paesaggio che non è più tale dopo gli effetti devastanti e disastrati della xylella fastidiosa. Quindi molto nel profondo. 

Di questi tempi, ricordo da bambino che il nonno paterno mi portava alla raccolta delle olive:

Agustinu, ci faci crai? Na, vistu ca u tiempu è bonu vau me coiu dhre quattru ulie me fazzu l’oiu pe casa”.

Chiudo gli occhi e rivedo tutte le operazioni che il nonno compiva per “caricare” il suo ape: scope artigianali, cernitrice manuale, reti, tine e cassette, attrezzi vari (mi ripeteva sempre che “i fierri nu n’hannu mai mancare sull’apu, ponnu sempre servire”!), una tanica di benzina per bruciare le sterpaglie a condizione che il vento fosse favorevole perché non si doveva dare fastidio ai vicini confinanti con i fumi della combustione. Altri tempi. Altra società. Direi altre persone. Tempi in cui la “parola” contava molto di più di un contratto ed il saluto alle persone più grandi costituiva un atto d’onore.

Dopo la cernita si andava con le olive raccolte (e “cernute”!) al frantoio per la macinatura. Una volta arrivati ci si registrava nel turno e dopo averle riversate in un grande cassone si attendeva per la spremitura. Ricordo che mentre parlava con altri compaesani, curioso com’ero, ascoltavo i loro discorsi: “quiste suntu ti rumani; quiste te mammalie; quanti tummini (tomolo: unità di misura di capacità per aridi anticamente usata nell’Italia meridionale) hai coti?”. Provo una nostalgia quasi dolorosa nel ricordare quei tempi. Di un bambino che amava sentire l’odore delle olive raccolte, del verde degli ulivi, toccare lo sporco della terra impregnata di sudore, duro lavoro e di tanta e tanta passione. Ecco ciò che per me costituisce il maggior danno della xylella: ha distrutto un’identità che è allo stesso tempo sogno e futuro; che quindi non può essere limitata a ciò che spesso si tende ad ignorare e che pure è tutelato dalla nostra Costituzione: il paesaggio. La sociologia dell’ambiente guarda con attenzione allo “spazio d’esperienza”, senza trascurare che storici come Donald Worster osservano l’ambiente sul piano della strutturazione nel tempo del patrimonio agricolo – forestale.

Ritengo che i tempi siano proficui per un focus serio che assuma quei “vocabolari significativi” che danno forma alle componenti sociali e simboliche delle “esperienze di contaminazione” di cui è causa la xylella fastidiosa. All’interno di un paesaggio che tende a sdoppiarsi: «da un lato quello idillico e a volte finto e costruito, delle cartoline e del relax, di villaggi vacanza e agriturismi; dall’altro lo spazio degradato in cui si vive, e si torna a vivere, rassegnati, dopo il riposo». Occorre intraprendere un’azione di ricostruzione di una realtà territoriale afflitta da questioni che colpiscono poliedricamente società, ambiente e territorio. Occorre abbandonare la rassegnazione ipocrita legata alle devastazioni che pure feriscono ogni giorno, rifiutando di vedere ciò che deve essere visto. Occorre interrompere quella logica autodistruttiva per la quale le anomalie stanno diventando regole e le eccezioni vanno trasformandosi in un modello di sviluppo ove l’urban sprawl sta mangiandosi città e campagna. Quel “paesaggio” armonioso che generazioni non hanno più nella loro geografia interiore. Costoro non avranno «nulla su cui fantasticare!». Si registra ancora una crescente gravità dello stress psicofisico innescato dalla violenza al paesaggio, dalla bellezza distrutta e dal brutale consumo del suolo. 

Un nuovo approccio per “ricostruire” un paesaggio martoriato non può privarsi di un allargamento dell’orizzonte d’indagine proprio perché è stata la limitatezza, talvolta voluta, «degli operatori di settore, dai politici ai tecnici, a portare a vedere lo stesso oggetto sotto aspetti diversi e (quasi) non comunicanti». Se è l’Italia a farsi in tre – paesaggio, ambiente, territorio – a maggior ragione la nostra Ugento, il Salento tutto deve diventare un’ esperienza per ripartire, che «non vuol dire “da zero. Vuol dire ripartire dalla legittima difesa della nostra salute e del nostro benessere, vuol dire ripartire da un senso alto e generoso della nostra comunità di cittadini, del pubblico interesse, dei diritti delle generazioni future: un tema, quest’ultimo, che è oggi sempre più esplorato, ma che non è affatto una novità». 

Per il futuro di questa parte di Madre Terra è necessario l’avvio collegiale di una ripartenza: i cittadini da cittadini, sforzandosi di capire il gergo degli specialisti, gli esperti usando al meglio le proprie competenze di settore (giuristi, urbanisti paesaggisti, storici, geografi, economisti, antropologi, sociologi, ecologi, biologi, etc.), ma ricordandosi di essere prima di tutto cittadini, e che è loro dovere rispettare, se e in quanto professionisti, alti principi etici e deontologici. La qualità del paesaggio e dell’ambiente non è un lusso, ma una necessità. Non possiamo permettere che la bellezza e l’unicità del nostro paesaggio siano irrimediabilmente vinte. Fiducia quindi, in un futuro possibile.

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