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Editoriali

Carafa sconfitto a Malaga, ma che lezione di vita!

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Un articolo che avrei preferito non scrivere, ma che mi tocca fare e dal quale voglio cercare di tirare fuori tutto il meglio di questa “strana” esperienza vissuta in terra iberica.
Sono in aereo e sto tornando da Malaga, dove, in Plaza de Toros – una location fulminantemente bella – ho assistito al match tra mio “fratello” Giuseppe Carafa e il campione europeo EBU Silver Falito Acosta.
Un vero e proprio campione, 24 anni, che ha dimostrato ancora una volta quanto sia vero tutto quel che di buono si dice su di lui e la sua innata propensione a salire sul ring con un solo obiettivo in testa.

Un match finito al terzo round, con il KO tecnico del nostro beniamino di casa, fermato da un forte dolore intercostale che si è poi rivelato essere la rottura di due costole, dopo aver subito un preciso gancio nella corta misura già al primo round.
Ma Giuseppe ha addirittura provato a continuare, arrivando al terzo, nel quale si è dovuto per forza arrendere alla verità dei fatti e alla sfortuna che lo ha visto subire un colpo del genere a pochi secondi dall’inizio del match, e che lo ha costretto al ricovero in ospedale a Malaga, dove è tutt’ora in attesa di ricevere il via libera per poter tornare a casa.

“Non puoi capire quanto faceva male, e con che violenza portava i colpi.”


Questo è quello che mi ha detto Giuseppe appena mi ha visto, ancora piegato dal dolore in sala antidoping, quasi a volersi scusare, giustificare per quello che era successo.
E non sapeva che per l’ennesima volta mi stava dando una lezione di vita, lui che è 7 anni più piccolo di me e che continua a stupirmi giorno dopo giorno.
Perché io ero lì solo pensando alla sua salute e non certo a un match andato male.

Il fatto è che chi si è collegato a pochi secondi dal match, per assistere a quello che comunque sia è stato uno spettacolo sportivo, non ha potuto respirare tutto quello che c’è stato prima.

Giuseppe è arrivato in Spagna due giorni prima, e vi posso assicurare che non ha trovato i tappeti rossi ad attenderlo.
Una lunga attesa in aeroporto, aspettando la macchina mandata dall’organizzazione, è stato solo il preludio del “trattamento” che gli spagnoli riservano ai loro avversari.
Una casa in affitto che non era certo una reggia, pochi posti assicurati al suo staff dall’organizzazione, che non ne ha voluto sapere di poter portare all’angolo anche me – che ho seguito Giuseppe proprio per documentarne le sue gesta e far sentire il nostro calore anche a migliaia di chilometri di distanza da casa.

Un atteggiamento provocatorio, indecente, schifoso, con un organizzatore più prossimo a un malfamato individuo delle calle che a un uomo d’affari, che dovrebbe garantire il benessere di un atleta che stava per salire sul ring rischiando la vita.
Ma Giuseppe è rimasto lì, senza dire una parola, inscalfibile, senza alcun tipo di atteggiamento provocatorio o polemico.
“Questo sport è anche questo” – mi ha detto poco dopo, quando è entrato nel suo spogliatoio lasciandomi sulla porta, andando a fare i biglietti per poter entrare.

Qui poi un’altra storia ancora, con un’organizzazione che non ha brillato certo per le buone maniere, soprattutto nei confronti di noi italiani.
Ho dovuto lasciare il mio zaino senza ricevere alcuna spiegazione da operatori che, naturalmente, non parlavano inglese.
E anche per poter far entrare il minimo della mia attrezzatura non è stato certo facile.
Tutti sintomi del trattamento riservato agli sfidanti, che si è concretizzato nell’accoglienza riservata al nostro beniamino sul ring, con il campione di casa entrato in uno spettacolo fatto di giochi pirotecnici e luci, in un’arena che tremava dall’assordante tifo.
Erano tutti lì per Acosta.

Nonostante questo, la faccia di Giuseppe non è cambiata di una virgola, come il suo atteggiamento.
Serio, determinato, deciso, come chi sa che sta per affrontare la scalata di una vetta impervia – forse la più alta della sua vita – e che comunque non lo avrebbe mai visto fare un passo indietro.

Così ha cominciato Bullet, e lo si è visto subito sul ring, con scambi che non sono certo stati determinati dalla paura.
Sembrava infatti potersela giocare, prima di quel colpo portato con estrema potenza e precisione, in una zona del corpo che possiamo definire “borderline” per quanto riguarda il regolamento.
Ma non è bastato neanche questo per far vacillare Giuseppe, che stoicamente ha voluto continuare nonostante il suo angolo si fosse già accorto che qualcosa non andasse.
Ed è così che ha affrontato anche il secondo, e poi il terzo round, dove ha dovuto obbligatoriamente mollare, incapace anche di respirare con naturalezza.

E ancora una volta: non una polemica, non un gesto di stizza, non un passo falso.
Ha salutato l’avversario, complimentandosi, scendendo dalla scaletta con l’amarezza e gli occhi lucidi di chi ha subito il suo primo KO in carriera, con una parola rivolta subito a chi lo ha seguito:


“Scusatemi se vi ho fatto perdere tutto questo tempo.”


Non sapendo che noi, tutti noi, eravamo – e siamo – sempre più fieri di poter avere accanto un campione prima, e una persona poi, di questa levatura.

Siamo noi, Giuseppe, che dobbiamo dirti grazie.
Perché oggi più di ieri ci hai dimostrato cosa vuol dire vivere, amare e combattere, in un mondo che ha dimenticato cosa vuol dire sudarsi un obiettivo.
Perché Giuseppe ieri ha perso una battaglia, ma sono sicuro che è solo l’inizio di quella guerra personale che lo porterà, ancora una volta, ad essere il migliore della sua categoria – anche e soprattutto per le sue doti umane, ancora superiori a quelle sportive.

Siamo tutti fieri di te, Bullet.
Perché alle parole dei bulli, preferisci i fatti dei giusti.

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Videomaker, Fotografo, Giornalista ed esperto di marketing digitale. Tutto questo dopo aver vissuto dieci anni a Bologna ed esser tornato in Salento. Oggi dirigo la redazione di Ozanews, la comunicazione di Ugento Calcio e le iniziative di Officine Multimediali ETS mentre continuo a lavorare per i miei clienti storici.

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